Il deserto, chiamato erg, edeyen, ramla, a seconda delle lingue o delle caratteristiche morfologiche, assume diversi aspetti. Si può incontrare il “mare di sabbia”, formato da onde permanenti, le barcane, che non sono, tuttavia, mai le stesse, perché si muovono seguendo le folate di vento dominanti, o è possibile imbattersi nelle ghurd, grandi piramidi con delle tipiche creste sinuose che costituiscono un punto di riferimento per i nomadi, inalterabili nel paesaggio, eppure composte da granelli di sabbia sempre diversi. Il paesaggio può avere dei toni dominanti sul rosso scuro, tipico di ere geologiche più antiche, o assumere tonalità grigiastre, che testimoniano un’attività geologica più recente: il variare della durata dei processi di ossidazione, sempre quantificati in millenni, ha determinato il colore della sabbia. La “Voragine di Sabbia”, come sono stati chiamati i chilometri di deserto che costituiscono gran parte del territorio libico, è stata descritta come un’area vuota, arida. In realtà, la vita si è adattata alle pur invivibili condizioni del deserto.
Una vita che segue le orme delle Rose di Gerico, vegetali che hanno rinunciato alle radici, si fanno trasportare dal vento e assorbono umidità dall’atmosfera. Certamente, non si vedranno mai degli uomini o delle donne tuareg che siano capaci di abbeverarsi direttamente dall’aria circostante, e il loro errare nel deserto potrebbe apparire ad un occhio profano come un vagabondare inutile, uno spreco di energie, delle braccia rubate all’agricoltura. Ma la vita nel deserto potrebbe riservare anche dei vantaggi, soprattutto se si considera il fatto che sia praticata da millenni, come testimonia l’antichità della grafia africana conosciuta con il nome di tifinagh, che ancora oggi è riscontrabile incisa in luoghi dove è presente l’acqua, con iscrizioni che recitano frasi come: “Io sono Akeru e vi dico che in questo pozzo l’acqua è buona”.
Eppure, la Storia riecheggia delle vicissitudini intercorse dalla parte della popolazione libica che viveva divisa nelle due regioni costiere e più densamente popolate, la Cirenaica e la Tripolitana, e sembra tacere riguardo agli eventi dei nomadi. Quel che un giorno sarà conosciuta come la Libia, ma che all’epoca era solo una delle tante regioni soggiogata al potere dell’Impero Ottomano, costituì nei primi anni del XX secolo un’appetibile colonia agli occhi della neo-nata Italia. I cinquant’anni di propaganda culturale colonialista che aveva permeato il clima culturale alla fine del 1800 convinsero l’élite italiana che la Libia fosse la Terra Promessa, la terra che avrebbe permesso il raggiungimento del benessere a migliaia di famiglie contadine.
Nel 1907 vennero mossi i primi passi “concreti” verso il sogno di un’Italia “colonizzatrice”, con una prima penetrazione economica, dapprima, e la dichiarazione di guerra contro l’Impero Ottomano enunciata da Giolitti solo quattro anni dopo: secondo la versione ufficiale, l’incolumità degli italiani a Tripoli era a rischio.
Sebbene nel 1912 l’Italia controllasse a malapena le regioni costiere, la Libia venne dichiarata autonoma dal Sultano e, di fatto, protettorato italiano. Da allora fino al 1943, anche grazie all’ideologia fascista, l’avventura coloniale italiana tentò di divenire realtà, tra carneficine, l’intera regione della Cirenaica messa a ferro e fuoco, violenze, campi di concentramento, prigionieri mai restituiti alla Libia. Ma il sogno italiano assunse anche sfumature tragicomiche, quando nel 1940 l’orgoglio della contro-aerea italiana di Tubruq che abbatté un aereo, reo di aver rifiutato il contatto radio, si trasformò in costernazione. A bordo, vi era il governatore della Libia, Italo Balbo.
Quando, nel 1943, la Libia si arrese agli inglesi, l’eredità italiana consistette in un tasso di analfabetismo al 94%, 13 libici laureati e una mortalità infantile al 40%.
Il sogno italiano si era trasformato in un incubo post-colonialista.
Nonostante gli italiani fossero stati cacciati, alle Nazioni Unite occorsero anni di trattative, finché finalmente, nel 1949 le tre province libiche formarono un unico stato sovrano, con il benestare di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e U.R.S.S. Nel 1951 ne venne messo a capo, in qualità di re, Idris al-Senussi, colui che guidò la rivolta dei Senussi della Cirenaica contro gli italiani e vendette basi militari a statunitensi e inglesi una volta salito al potere.
Per la Libia seguì un decennio all’insegna dell’oro nero, dal “jack pot” vinto con la scoperta di un ricchissimo giacimento di petrolio a Bi’r Ziltan, ma la situazione sociale s’inasprì: nel 1964 iniziarono le proteste contro l’eccessiva tolleranza del governo verso la presenza militare occidentale; inoltre la grande ricchezza aveva contribuito ad aumentare le contraddizioni della Libia. Nonostante economicamente fosse auto sufficiente, era tuttavia incapace di gestire il proprio sviluppo senza la cooperazione dell’Occidente e l’iniqua distribuzione del potere alimentava il malcontento. Il punto di svolta si ebbe il primo settembre 1969, con la “Rivoluzione degli Ufficiali liberi”: un piccolo drappello di soldati riuscì, grazie all’efficienza strategica e ad un controllo della tempistica sorprendente, a prendere il potere e spodestare il Re. Il loro leader, auto proclamatosi colonnello, proveniva da una famiglia dedita alla pastorizia e visse i suoi primi dieci anni di vita nei pascoli, all’interno della società beduina; il deserto reclamò la sua parte di Storia nella persona di Muʽammar Gheddafi. Molto è stato scritto e molto ci sarebbe da scrivere sulla personalità di quel che è stato un personaggio controverso e versatile che ha assunto e mantenuto la leadership della Libia fino al 2011. Nazionalista, perseguì l’obiettivo di creare un’unione fra tutti i paesi arabi esplicata insieme ad altre sue idee nel suo al-Khitab al-akhdar, conosciuto altresì come il Libro Verde; ad esempio, come la democrazia non sia mai stata tale, perché nella storia dell’umanità la lotta per raggiungere il potere non si è rivelata essere altro che la sopraffazione del popolo, che costituirebbe la vera democrazia. Anti-parlamentista, scrive che: “Il Parlamento non rappresenta realmente il popolo e i governi parlamentari sono una soluzione fuorviante al problema della democrazia (…). I membri del Parlamento rappresentano i loro partiti e non il popolo (…). Sotto questo sistema il popolo è una vittima: ingannato e sfruttato dagli organi politici. (Il principio) della rappresentanza è una frode.”
Offrendo come soluzione la realizzazione della democrazia popolare attraverso comitati popolari, Gheddafi piantò i semi per la nascita della Jamahiriyya, un neologismo arabo traducibile come “stato delle masse”, aspirando al ritorno ad una società tribale, fondata sull’uguaglianza e sull’aiuto reciproco. Il suo appoggio alle organizzazioni palestinesi più estremiste, perché considerate “combattenti per la libertà”, si allargò fino a coinvolgere altri “movimenti di liberazione nazionale”, quali ad esempio l’ETA in Spagna, i separatisti di Bretagna e Corsica, l’IRA, i guerriglieri colombiani. Ciò non fece altro che farlo considerare un folle visionario, nelle migliori delle ipotesi, e inasprì i rapporti tra Libia e gli USA, soprattutto durante i mandati di Reagan durante gli anni ’80. Nel 1986 la Libia fu vittima di un attacco statunitense attuato con la certezza che un simile passo avrebbero causato la caduta del regime o, perlomeno, una modifica della sua politica estera. Invece, dopo un periodo di isolamento trascorso nel deserto, Gheddafi rispose continuando a sovvenzionare azioni terroristiche, finché il coinvolgimento di due agenti libici in disastri aerei non portarono l’ONU a penalizzare la Libia, nel 1992, con severe sanzioni economiche. Gli anni ’90 coincisero dunque con un periodo molto difficile per la Libia, dal quale riemerse solo nel 1999, quando Gheddafi, acconsentì al processo dei due agenti dei servizi segreti invischiati con i disastri aerei. Gli anni Duemila videro, dunque, la riapertura di un dialogo internazionale e il conseguente rilancio economico dovuto all’aumento del prezzo del petrolio; nonostante ciò, alcune ombre incombevano sul paese, come ad esempio la scarsa democratizzazione e il sistema autoritario di gestione del potere. Questi fattori, inseriti in un contesto generale di rivolte in Nord Africa e in Medio Oriente conosciuto come “Primavera Araba”, portarono nel corso del 2011 al divampare di numerose proteste, spesso represse nel sangue. Questo circolo di violenze pareva potesse terminare con l’esecuzione di Gheddafi, ma in realtà venne scoperchiato il “vaso di Pandora” della Jamahiriyya, e il mondo Occidentale è stato costretto ad affrontare delle verità che gli conveniva ignorare, in nome degli accordi economici: la violazione dei diritti umani e l’assoluta negazione della libertà di stampa attuati durante gli anni del regime.
Purtroppo, quel che sembrava la speranza della Libia si è rivelato essere causa di ulteriori dolori: dopo 7 anni, il potere viene ancora conteso fra diverse fazioni, e mentre si combatte per raggiungere la supremazia, la popolazione soffre.
Inoltre, il territorio libico costituisce il “ponte” verso l’Europa di tutti coloro che da altri paesi africani in guerra tentano di avere una speranza di vita; moltissimi speculano sulla vita di chi ha perso tutto, regolandone il flusso per poi imbarcarli su dei gommoni e lasciarli in pasto al Mar Mediterraneo.
Il fallimento delle ideologie del rajul al-khayma, “l’uomo della tenda”, come era chiamato Gheddafi, è da ricercare anche nell’intrinseca caratteristica del potere: corrode. Tutti coloro quelli che ottengono ricchezze e benessere prima o poi cominceranno a sfruttare il prossimo, per ottenere più ricchezze e più benessere. E, soprattutto più potere, in un circolo vizioso dove vengono commessi crimini e sopraffazioni pur di ottenere “di più” e mantenere lo status quo già raggiunto. Anche delle idee che in origine siano democratiche, tolleranti ed eque come quelle che invasero i cuori degli Ufficiali Liberi nel 1969, ossidano a causa dell’azione corrosiva del potere; nel caso della Libia, ciò non ha fatto altro che creare ulteriore devastazione nella “Grande Voragine”, costringendo i libici a perdere le proprie radici e cominciare a farsi trascinare come novelle Rose di Gerico.