di Luisa Di Maso
Instagram @luisa.di.maso
Quale magia contiene questo romanzo, quale pozione alimenta gli stati d’animo in una girandola di emozioni e sentimento? Le parole scelte con cura, i temi trattati, la capacità dell’autore di proiettarsi lui per primo nella storia e viverla per consentire a noi lettori di fare lo stesso?
Stordita da tanti stimoli utili alla riflessione, mi è difficile condensare nello spazio breve di questo articolo la bellezza ricevuta, la commozione, l’incanto provato nel cogliere, dalle vicende e dai personaggi, l’umanità fallibile, erronea e imperfetta, eppure densa di significato, quella di adulti e bambini che abitano per costrizione o per lavoro un luogo particolare, un istituto di detenzione che accoglie madri con figli.
Diego è il giovane protagonista, ha nove anni e abita a Napoli, preso di mira dai suoi coetanei per via degli occhiali che indossa e perché è grassottello, all’improvviso, si trova costretto a vivere con sua madre Miriam in un ICAM, un istituto di custodia attenuata per madri che hanno commesso reati.
“Il carcere, Miriam lo avrebbe presto capito, era un disordine sgraziato di suoni, una patina di rumori a scandire ore sempre uguali. La quiete lì non c’era, e quando c’era, portava sospetti. Nel cuore della notte giungeva il russo della cella accanto, il cigolio della rete del letto di chi non trovava pace, le chiacchiere della televisione di chi non la spegneva mai, perché ad alcune prendeva la paura di essere sole al mondo, e nel buio temevano d’incontrare i propri demoni, venuti a banchettare con le loro anime peccatrici. (…) Il sole mattutino s’affaccendava a portare un po’ di calore, permetteva ai bambini di restare fuori a giocare, ma proiettava l’ombra delle sbarre sulla parete di destra, sezionava il muro come fosse una scacchiera.”
In carcere il bambino acquisisce sicurezza e si fa degli amici, anche i poliziotti e i volontari lo trattano con quella gentilezza alla quale lui non è abituato. Tra quelle sbarre Diego conosce anche Melina, una bambina dolce che diventerà per lui un punto di riferimento.
“La mattina in cui le sue pupille erano finite per la prima volta in quelle di lui, aveva sentito un brivido di freddo e avrebbe voluto scoppiare a piangere, ma alla fine gli aveva sorriso. Ed erano diventati amici. Lui s’affacciava ogni giorno alla sua finestra con una parola in bocca, e gliela regalava compiaciuto, ma lei spesso la scartava perché non somigliava a niente di bello, perché non portava festa né odori, perché… Nemmeno lei lo sapeva, il perché.”
Un romanzo che non può lasciare indifferenti, che strappa, sconvolge, aggroviglia lo stomaco che prova a sussurrare all’orecchio una speranza, a porgere alle mani un appiglio.
E se delle parole, l’autore sottolinea soprattutto per bocca della piccola Melina, il potere di fissare la bellezza delle piccole cose, con le stesse parole ci mostra le brutture di quell’unica “spietata esistenza possibile” cui alcuni sembrano destinati.
“A suo figlio, Miriam l’aveva cresciuto senza amore e lacrime, come a mostrargli la via da tenere, per temprarlo, ché per educazione ricevuta lei s’era convinta, lo sappiamo, che il poco di tutto corrobora lo spirito, e che sofferenza e cicatrici ti fanno la pelle corazza. Era il suo modo di proteggerlo. Miriam aveva la guerra dentro, in testa il ruggito, e se pure quei mesi all’Icam l’avevano aiutata a mettere sul mondo uno sguardo diverso, il dolore la riportava indietro di botto, allo stato primitivo, alle sue debolezze che credeva forza, alla furia vendicatrice, all’idea di essere in battaglia con tutto e tutti.”
Le madri non dormono mai
Lorenzo Marone
Einaudi