di Luisa Di Maso
Instagram @luisa.di.maso
Perdere un genitore quando si è molto piccoli, significa smarrire anche i contorni di una sembianza che dovrebbe essere nota, ricercarla nelle fotografie e nei video di famiglia, unici canali di rappresentazione a connettere chi vive con chi non c’è più. Anche i racconti creano suggestioni e consentono una certa interpretazione ma sono talvolta attenuati, se non condizionati dal pensiero di chi, interrogato, ricorda episodi fugaci, spesso rielaborati. Se poi il genitore in questione è morto suicida e l’orfano è un bambino di due anni e mezzo, il silenzio quasi s’impone come pastoia protettiva a impedire quella consapevolezza che a volte irrompe a distanza di anni, provocando dolore forse più della mancanza stessa. Un racconto troppo grande, troppo pesante per un bambino che chiede notizie. Familiari e amici preferiscono tacere, innalzare muri di protezione.
“Il rinvio è diventato gesto fondativo. Un muro che separa, totemico, la verità dai sensi di colpa. Tutta questa, in fondo, non è che una storia di muri più o meno fisici, più o meno reali. Se c’è una cosa che ho imparato è che i muri possono diventare il tuo miglior rifugio se solo sai da quale parte nasconderti. Il muro blocca, richiude, ingabbia, impedisce. Ma il muro protegge anche, ripara, contiene, custodisce.”
In “Vorrei chiederti di quel giorno. Vita e morte di un ragazzo che era mio padre”, Lorenzo Tosa racconta la vita di suo padre Bruno, Papabruno come era lui stesso a chiamarlo da bambino, cercando di ricostruire i pezzi slegati, venuti a galla attraverso le chiacchierate predisposte proprio al fine di indagare, con chi il padre lo aveva conosciuto, frequentato, amato. È proprio da una conversazione con una donna, estranea alla famiglia, che quella morte da sempre indicata dalla madre e dai parenti come un incidente si rivelerà un suicidio.
“Mamma lo sapeva e non mi ha mai detto nulla. (…) Ora è Lucia che vorrebbe alzarsi dalla sedia, spegnere tutto, prendersi una pausa. Dice che non è così che dovevano andare le cose, che non spettava a lei assumersi la responsabilità di dire a un figlio come è morto suo padre. È arrabbiata con chi lo ha permesso, con chi ha lasciato che accadesse. Dovrei esserlo anche io, credo, eppure non provo nulla di lontanamente affine a un sentimento di rabbia o di frustrazione. Ho assimilato così a lungo e con tale cieca ubbidienza l’obbligo del silenzio da convincermi di non averne diritto.”
In queste pagine che scorrono veloci in cui ci si ritrova a guardare indietro a quegli anni sessanta e settanta in cui l’Italia era attraversata dal fermento della politica giovanile, dalla contestazione, dal divario tra generazioni, dal terrorismo nero e rosso, ciò che colpisce è la capacità dell’autore di strutturare una narrazione personale, efficace e coinvolgente, dentro i fatti che hanno scritto la Storia.
“Chissà se immaginavano, quei ragazzi, nel momento in cui marciavano per via XX settembre coi pugni chiusi, che un giorno avrebbero trovato un piccolo spazio sui libri di Storia (…).”
C’è, poi, il tema profondo della malattia mentale, l’attenzione di Lorenzo a quelli che erano i sintomi di un disagio psichico di cui Bruno soffriva e che in tanti hanno evidenziato nei loro racconti. La dolcezza delle parole di un figlio che ha superato l’età del padre è toccante.
“Papà sei ancora lì? Puoi sentirmi? Oppure il vento lassù tira troppo forte? A cosa stai pensando ora? Darei tutto quello che ho per sapere qual è stato il tuo ultimo pensiero.”
Un romanzo meraviglioso, coraggioso, lucido, ragionevole, ma anche tenero, delicato in cui si evince la bravura di Tosa che è riuscito a parlare di sé e della propria vicenda, intrecciata a quella del padre e a quella dei propri familiari, senza cedere mai al giudizio affrettato nei confronti di chi ha nascosto la verità o di chi la verità l’ha fatta propria, forse riscrivendola.
Vorrei chiederti di quel giorno. Vita e morte di un ragazzo che era mio padre.
Lorenzo Tosa
Rizzoli