di Luisa Di Maso
Instagram @luisa.di.maso
Matilde è una bambina sovrappeso di otto anni; la mamma, bulimica, le somministra pasticche di lassativi, per farla dimagrire. Parte così il romanzo e sin dall’inizio si prova una certa avversione per questa madre incapace di amare che vede nella figlia il suo fallimento. Si specchia ogni giorno Matilde negli occhi delusi della mamma ed è così che costruisce un’immagine di sé distorta, intrisa di sensi di colpa. Non attira simpatie neanche il padre, egocentrico e narcisista.
“Siamo moderni e molto laici. Mamma e papà mi mandano a scuola dalle suore, ma solo per avere un posto dove dimenticarmi. (…) Non c’è problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine.”
Due genitori che parlano poco e che con quel poco di lessico feriscono. Il sottotesto, o meglio il non detto, che si imprime nel vissuto quotidiano della bambina che coglie il fastidio sotto una falsa preoccupazione, ma anche il linguaggio materno offensivo che esplode, all’improvviso, a sottolineare l’ingordigia della figlia, sono quanto di più triste possa sopportare Matilde. Ingorda, abulica, balenottera, cretina.
“Allora, nessuno sapeva che effetto devastante possono avere certe parole sui bambini, certi comportamenti, atteggiamenti, la mamma che ti dice che non hai un fisico normale.”
Matilde inizia a ingrassare quando nasce Leo, il fratello e prosegue a ingrassare anche negli anni a seguire, o più correttamente no, c’è un’età in cui Matilde è magra, ma ugualmente si sente grassa.
“Ho mangiato per noia, per ansia, per dolore. Perché cos’è la fame se non un’emozione? Soprattutto ho mangiato per sfida. Per vedere dove potevo arrivare a farmi schifo. A fare schifo, anche se degli altri a un certo punto non ti frega più. Direste che mi sia mangiata la vita. Non è stato così. Sono una donna molto funzionale. Ma sono sempre stata grassa, anche quando non lo ero. Anche quando ero bella e non me ne accorgevo.”
Un continuo senso di mancanza si avverte nella vita della protagonista, cibo razionato, anche se lei tende a mangiare di nascosto, poche attenzioni, niente dialogo con i genitori, né tantomeno con i partner in seguito, Filippo, primo fra tutti, quarantenne complessato e manipolatore.
“Faceva sempre così Filippo, quando le cose tra di noi andavano bene. Doveva rovinare tutto. E io aspettavo quel momento e quasi lo cercavo, lo anticipavo per non soffrire più. Vivevo nella paura e nell’attesa.”
In “Non superare le dosi consigliate” l’autrice con uno stile autobiografico, intimistico, schietto, irrompe nella mente del lettore con una tale forza, da lasciare storditi al termine della lettura. Le pagine che sembrano scritte d’impeto, secondo un flusso di coscienza inarrestabile, raccontano il dolore, le strategie più o meno efficaci per contrastarlo, la trasandatezza, la negligenza, le scuse. Il grasso, il magro, il troppo, il niente, la critica feroce, l’autoassoluzione. Gli opposti sentimenti che si comprimono e interfacciano in una sola persona.
“Giorni fa Leo mi ha mandato delle foto di quand’eravamo bambini, non le vedevo da anni. E sarà che a una certa età sei più indulgente, sarà che di quand’ero molto grassa foto ce ne sono poche, fatto sta che riguardandole non ho visto una bambina grassa né una bambina brutta. Certo non sapevo pettinarmi, né vestirmi, avevo i capelli appiccicati al viso e gli occhiali spessi. Ma non ero così grassa, non ero sempre grassa, e non ero affatto brutta.”
Una storia dal contenuto complesso, ma ben fruibile, disordinata a volte, fatta di episodi spesso slegati, ma bella, forse, proprio per queste sue caratteristiche che la rendono originale.
“Non superare le dosi consigliate”
Costanza Rizzacasa d’Orsogna
Guanda Editore