di Luisa Di Maso
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Le parole hanno una funzione, esprimono l’idea del mondo che ciascuno ha. Individuano, descrivono, orientano il pensiero e, di conseguenza, il comportamento sociale. Le parole hanno anche un potere. Chi più ne ha le usa a proprio piacimento. Nel bene e nel male. Parole benevole o malevole per sé, per gli altri. Parole che talvolta etichettano. Strega, un sostantivo che non ha maschile e che volto al plurale si è moltiplicato in migliaia di donne che, secoli or sono, sono state torturate e arse al rogo, ha avuto a lungo la funzione di stigma. Donne conoscitrici della natura, esperte nell’uso delle erbe, curatrici dei mali che spesso i medici del tempo non erano in grado di alleviare, da un determinato momento storico in poi hanno iniziato a essere demonizzate dai delatori al servizio dell’inquisizione e dai pingui religiosi, pagando con la vita la loro saggezza, il loro desiderio di riscattarsi da una condizione di assoggettamento perpetuo.
Barbara Vallerin è una ragazza dello Scilar cresciuta a contatto con la natura dalla madre che le insegna le virtù medicamentose delle piante.
“Così torniamo a casa, e la mamma ci spiega cos’è la magia. È come leggere un libro, dice. Come il prete che a messa apre quei suoi volumoni e guardando le macchie nere sul bianco della carta vede la parola di Dio. Ecco, noi leggiamo i segni della terra e delle persone. Dove altri vedono macchie nere, noi vediamo il dolore e la cura. E dobbiamo scegliere la cura, sempre: anche quando è difficile distinguerla dal dolore.”
Una vita povera ma dignitosa finché tutto cambia per Barbara che, persa in giovane età la madre, si prende cura della sorella Sonne. L’accusa di stregoneria la investe dopo che altre sue compagne, sono già finite al rogo.
“In paese si sentono discorsi rabbiosi, pieni di parole di cui non conosco il significato. Non lo conoscono neanche le persone che lo pronunciano, ci giurerei: sono parole di quell’uomo malvagio, oscure e taglienti. Come una pestilenza si diffondono tra noi. Abbiamo visto molte altre ragazze essere condotte in catene al castello e uscirne solo per andare al patibolo, mentre l’intero paese gridava maledizioni. Il castello è un formicaio di grassi preti in tonaca nera, di notai e di scrivani: il maligno sarà estirpato, si dice. E in tutta la valle si solleva un’onda di eccitazione e rabbia.”
A distanza di cinquecento anni ad Arianna Miele, antropologa, viene affidato il compito di curare una mostra sulle streghe dello Scilar ed è questo il momento in cui viene a galla una scomoda verità.
“Ma tutti i miei errori non potevano oscurare il fatto che allo Scilar era accaduto qualcosa di grosso, e di brutto. Qualcosa da cui il mondo non era ancora al sicuro. Allo Scilar le idee sciagurate di pochi fanatici si erano trasformate, diffondendosi in una popolazione impoverita, terrorizzata e incattivita, in una bufera di odio e paranoia che aveva spazzato via la parte più indifesa della comunità: le donne, che per un motivo e per l’altro, non si erano integrate nel tessuto sociale. Succedeva ancora nel nostro mondo, nei nostri paesi civilizzatissimi. Non solo alle donne, anche se alle donne di più. E magari non finiva con un rogo, ma la sofferenza, l’umiliazione e la violenza rimanevano.”
“E ti chiameranno strega” di Katia Tenti è una storia intensa e travolgente raccontata su due piani temporali. La prosa ricca, realistica, incalzante nella descrizione degli episodi presenti, cede il passo alla prosa raffinata, avvolgente, suggestiva delle situazioni passate. In un crescendo di emozioni il lettore trova modo di affezionarsi alle donne protagoniste, vissute a distanza di cinquecento anni, ma le cui vite si toccano. Lo stile narrativo impeccabile conferisce a questo romanzo potenza e grande capacità evocativa. Bellissimo e imperdibile.
E ti chiameranno strega
Katia Tenti
Neri Pozza